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I LIMITI DELL’INQUADRAMENTO TEMPORALE DEL DOLORE

12/03/2022 - Scritto da: Dott. Tommaso Cusimano

Il dolore è senza dubbio il principale motivo di consulto in ambito medico e fisioterapico da parte dei pazienti.

Anche se rappresenta la via che ha il corpo per esprimere un danno, descrivere questa dimensione è complesso.

Nel 2020 la IASP (Associazione Internazionale Studi sul Dolore) ha aggiornato la definizione di dolore con: “esperienza sensoriale ed emozionale spiacevole associata a un danno reale o potenziale”. Il dolore è un fenomeno che ha a che fare con stimoli lesivi ma che non si può separare da una condizione spiacevole appartenente a una dimensione psicologica.

Storicamente il dolore viene diviso in tipologie secondo il criterio temporale. Questa tassonomia si limita a classificarlo in base al tempo passato dalla sua insorgenza in 3 tipologie: acuto, subacuto e cronico.

Il dolore acuto è una risposta fisiologica che utilizza il corpo quando deve segnalarci un danno dei tessuti. Dal punto di vista evolutivo ha un significato importante perché, portandoci a cambiare subito il nostro comportamento in relazione a un pericolo, ci protegge. Generalmente non supera le 4 settimane.

Nella fase acuta il dolore e la sua intensità sono coerenti con l’entità del danno, i sintomi e i comportamenti del paziente. Le nostre scelte terapeutiche sono quindi più facili.

Dopo il mese si entra in una zona grigia del dolore che si definisce subacuta che rappresenta la transizione verso il dolore cronico (oltre i 3 mesi). A differenza di quello acuto nel dolore subacuto (e cronico) il corpo ha perso la capacità di recupero spontaneo e per questo la sua gestione è completamente diversa. Il dolore subacuto e cronico non rispecchiano la reale situazione dei tessuti ma si trascinano dietro tutte le conseguenze del dolore acuto come l’abbandono di attività fisica, l’ansia e la paura.

Tali conseguenze sensibilizzano il nostro sistema nervoso a qualsiasi stimolo e sono la ragione stessa della persistenza del dolore.

Chiarito l’aspetto temporale quanto deve preoccupare al paziente conoscere a quale tipologia appartiene? Poco perché non è possibile parlare di dolore tralasciando lo stato di salute della persona, inteso come sistema superiore nel quale vive (famiglia, comunità, società). Per questo il criterio temporale non è un buon modo per “etichettare” il paziente perché preclude al clinico l’occasione di individuare gli atteggiamenti e le convinzioni tipiche del suo contesto sociale.

In questo scenario diventa rilevante abbandonare l’approccio biomedico, incentrato solo sulla cura dei sintomi, a favore di un approccio biopsicosociale, attento al comportamento derivante dalla malattia stessa.

Il punto centrale è come le persone vivono il proprio problema alla salute, che approccio hanno al dolore e come noi terapisti possiamo educarle a strategie corrette per eliminare quelle credenze e comportamenti che alimentano la loro situazione di dolore.

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